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Dal 18 al 27 settembre a Rovereto l'omaggio a Mario Comperini

Rovereto omaggia Mario Comperini, a cent’anni dalla sua nascita. Al grande campione di tennis, nato a Rovereto nel 1920 e scomparso ad Arco nel 1997, è dedicata una bella mostra fotografica, curata da Roberto Setti e dal presidente del Tc C10 Mauro Galvagni, dal titolo “L'epoca del tennis di Mario Comperini nel centenario della nascita”. La mostra si terrà presso la Biblioteca Civica G. Tartarotti, in Corso Angelo Bettini, a Rovereto, dal 18 al 27 Settembre.

LA STORIA - Mario Comperini era nato a Rovereto una fresca giornata di primavera del 1920, in una città ancora ferita dalla guerra. Aveva cominciato ad avvicinarsi al tennis a quattordici anni, raccattapalle degli eleganti giocatori che si dilettavano sul vecchio campo in terra rossa di via Nicolò Tommaseo. Il modo più semplice per assimilare i primi rudimenti, ma soprattutto un’occupazione utile per guadagnare qualche spicciolo. E all’epoca la mansione non era poi molto impegnativa, non bisognava porgere dopo ogni scambio un asciugamano fradicio ai giocatori, si trattava semplicemente di appoggiare due palle bianche sul piatto corde. E con un paio di ore riuscivi pure a pagarti il cinema o a dissertarti con una coca cola. Il massimo per l’epoca. Giulio Supith, il primo vero allenatore e preparatore che si fosse mai visto in provincia, un esotico istrione dai tratti orientali e dall’occhio lungo, ci aveva messo poco a intuire le grandi potenzialità di questo ragazzetto dall’aria sveglia. Tipo singolare questo Supith, gli occhiali e lo sguardo tagliente gli conferivano l’aspetto di un severo professore di matematica, la carnagione olivastra ne tradiva le origini asiatiche, probabilmente malesi. Vestiva in maniera sempre impeccabile, rigorosamente bianco o creme, pantalone lungo, camicie candide, maglioni bordati in rosso. Era arrivato a Rovereto in compagnia dell’eccentrico conte Mamoli che aveva preso alloggio a Villa Pineta, allestendo subito un campo da tennis, sport di cui era appassionatissimo. Supith aveva uno spiccato senso della disciplina e del dovere, trasmesso nei suoi non sempre ortodossi sistemi di allenamento, ma nel campo della villa aveva tirato fuori più di un buon tennista. “Forse anche il campione che aspettiamo”, scriveva al proposito Emilio De Martino sulla pagina sportiva del Corriere della Sera commentando le partite che avevano visto protagonisti sui campi del Tennis Club Merano alla fine degli anni Venti il veronese Vasco Valerio e il ligure Gino Vido. Alla rigorosa scuola di Supith, Comperini aveva appreso le nozioni basilari, ne aveva saggiato i metodi eretici, ma efficaci. “Un tipo strano - ricorderà - in allenamento sapeva giocare come un buon seconda, in gara invece rendeva come un terza piuttosto scadente. Con me c’erano Godio, Ferrario e i fratelli Laich, tutta gente che è arrivata a buoni livelli.”

LAMBERTENGHI - Un po’ di corda, qualche colpo al muro, e tanta corsa. Mario affina non solo le doti tecniche ma anche quelle fisiche. Al resto provvede il suo talento naturale. A diciassette anni comincia a far parlare di sé raggiungendo la finale ai campionati italiani di 2a categoria a Napoli, persa poi con il sassarese Bozzo dopo aver battuto 6-3 al quinto Mario Belardinelli, il futuro padre del tennis italiano moderno. Quello dei Panatta, Bertolucci, Barazzutti, della Davis vinta nel 1976, tanto per intenderciA Sanremo si toglie la soddisfazione di mettere sotto Giorgio De Stefani, quindi conquista il torneo di seconda di Merano schiantando un altro ex davisman, il milanese Placido Gaslini. E’ in rampa di lancio e l’anno successivo, è il 1939, sbaraglia facilmente la concorrenza regionale nel torneo di qualificazione alla Coppa Lambertenghi, una sorta di campionato italiano juniores, ideato dalla "Gazzetta dello Sport" con l'intento di divulgare il tennis tra le giovani leve. Erano tempi in cui senza scuole e palloni la stagione nel nord Italia durava al massimo da aprile a ottobre e quando si parlava di giovani ci si riferiva a ragazzoni di 17 o 18 anni. “D’inverno ci si trasferiva a Sanremo - racconterà ancora Mario - non c’erano impianti coperti e la riviera ligure era l’unico posto dove si potesse giocare tutto l’anno all’aperto”. Il presidente del Tennis Club Milano, il conte Alberto Bonacossa, aveva raccolto con entusiasmo l'iniziativa della rosea e si era offerto di ospitare le finali sul campo centrale del glorioso Club milanese, fondato nel lontano 1893. Il torneo era stato presto intitolato al marchese Gilberto Porro Lambertenghi, ufficiale di cavalleria caduto nel 1917 e decorato con medaglia al valore, grande amico del Bonacossa che già gli aveva dedicato il nuovo campo centrale del Club di via Arimondi. Inizialmente riservato agli juniores, a partire dal 1947 il torneo abbasserà sempre più il limite di età dei partecipanti, sino agli attuali 12, con l’edizione del 1976.

FINALE - Comperini non ha difficoltà a raggiungere la finale, qui ad attenderlo c’è il pariolino Roberto Sabbadini, figlio 15enne di Riccardo, campione italiano nel 1920 e nel 1923. E’ la sfida tra i favoriti della vigilia: due giocatori che hanno nel rovescio, portato con grande eleganza e apparente facilità, il loro punto di forza. Sabatini è istrionico e geniale, tatticamente più abile e accorto, e sul campo si muove come un gatto; Comperini, lineamenti mediterranei, muscoli possenti, invece è un istintivo che si spinge sempre all’attacco. Il suo è un tennis d’assalto, alla baionetta, spesso imprevedibile, condotto con palle azzardate, mezze volate che il più delle volte lo espongono incautamente ai passanti avversari. In finale le traiettorie precise del romano non perdonano, dopo un avvio equilibrato Sabbadini ingabbia il trentino e lo costringe alla resa aggiudicandosi così la prima edizione del trofeo. Solo la delicata Cecilia Berti, nel 1951, riuscirà a spingersi più in alto del roveretano, unica trentina a vincere la prestigiosa Coppa Lambertenghi. Comperini può comunque sorridere, per lui sembrano spalancarsi le porte di una brillante carriera, che lo porta rapidamente al vertice della seconda categoria e alla finale dei campionati nazionali di Torino nel 1941. Dovrebbe passare in prima, ma l’incalzare tragico degli eventi spegne ogni illusione.

MARINA - La guerra divampa e non c’è più tempo per inseguire i sogni. Mario deve arruolarsi in Marina, resterà a Roma scansando fortunatamente le bombe e continuando a giocare a tennis. Nel 1942 trionfa insieme a Rolando Del Bello, Monti e Belardinelli con il Ct Parioli nella Coppa Croce, il campionato a squadre riservato ai seconda. “Il suo rovescio era fulmineo e calibratissimo, passava rasente il nastro - scrive il cronista dell’epoca - solamente una volta è terminato contro la rete.” Con Belardinelli, che ha un anno di più, forma una delle coppie più affiatate e vincenti del periodo. C'è grande rispetto e stima tra i due, hanno lo stesso carattere, burbero, spartano di valori, ma generoso e onesto. Belardinelli dovrà tanto all’amico, forse la vita, perché fu proprio Comperini, quando si trovava a Roma, a segnalarlo come possibile rinforzo per la squadra di tennis militare. Arruolato come artigliere di montagna, è in procinto di raggiungere il fronte russo, “Mi disse, non ci vediamo più, devo partire. Io corsi dal mio comandante che era un fanatico di tennis e gli spiegai che poteva risultare utilissimo alla nostra squadra. Fu spostato pure lui in marina e poté rimanere a Roma.” Finita la guerra nulla però sarà più come prima. Mario tornerà a Rovereto con qualche rimpianto nella valigia, il ricordo dei palleggi con l’allievo Bruno, primogenito del duce Benito Mussolini, scambiati nell’opprimente clima della guerra a Villa Tortonia. Lì dove lo stesso Mussolini aveva cominciato a prendere lezioni con una certa costanza, proprio da Belardinelli. Che di quel periodo rievocherà spesso sogghignando un gustoso aneddoto, di quando, volendogli curare il suo incerto rovescio, si sentì rispondere in tono perentorio dal duce: “Camerata Belardinelli si ricordi, Noi tireremo sempre diritto.”

MERLO - Finita la guerra, nell’ottobre del 1946, Comperini torna protagonista nel torneo di seconda categoria organizzato dal Ct Trento sui campi di piazza Venezia. ll nuovo direttivo del Circolo, radunato attorno alla figura del dottor Gilberto Gattamorta, noto commercialista, promuove nell’ottobre del 1946 una nuova edizione del “Città di Trento”. L’ultima si era disputata nel ’42, prima che anche sulla città cominciassero a cadere le bombe. Dura solo tre giorni, e sulle tribune accorre un pubblico insolitamente numeroso e partecipe. Ci sono tutte le migliori racchette regionali e qualche buon tennista veneto e lombardo, ma a brillare di luce intensa è la giovane e promettente stella di Beppino Merlo, 19enne figlio del custode del Tc Merano, un genovese trapiantato in Alto Adige. Gioca un tennis molto personale, ma estremamente efficace: il diritto con la presa a mezzo manico è più velenoso che forte, mentre la battuta “da ragazza”, come l’aveva apostrofata qualcuno, era spesso così lenta e precisa da confondere gli avversari, ma il rovescio “è una folgore”, un colpo mai visto, portato a due mani con la presa di un mancino. Non si tratta di una geniale stravaganza quanto piuttosto di una stretta necessità, per un ragazzino minuto che aveva cominciato impugnando una racchetta troppo pesante. Merlo lo aveva trasformato in un’arma terribile, e a farne le spese in semifinale è proprio Comperini, il numero uno del tabellone. Il campione roveretano si aggrappa all’orgoglio per accorciare gli scambi ed evitare quel rovescio infido, ma alla fine deve alzare bandiera bianca di fronte alla dura tempra agonistica del più giovane rivale, che sa aprirsi angoli insospettati e che soprattutto non la smette di correre e ributtare la palla dall’altra parte della rete. Il meranese approfitta poi del ritiro di Sandrini in finale per aggiudicarsi il torneo, un ritiro che non ridimensiona il suo trionfo, ben pochi infatti avrebbero scommesso qualche centesimo sull’anziano veronese che qui era già stato finalista dodici anni prima, nel 1933. In coppia con Godio, Comperini si riscatta vincendo la finale del doppio, proprio a spese dell’irriverente giovanotto, che pure si era scelto un doppista di tutto rispetto e intelligenza tattica come Enzo Ferrario.

L’ULTIMA VITTORIA - La rivincita, quella vera, se la prenderà solo qualche mese più tardi, nel maggio del 1947, battendo Merlo nella sfida decisiva del torneo di Primavera organizzato ancora dal Ct Trento. Mario è scatenato e fa man bassa di titoli: singolo, doppio maschile con Godio, e misto al fianco della rivana Delia Oradini. “Un giorno difficile da dimenticare quello - rivelerà sorridendo - perché è lo stesso in cui nacque anche mia figlia Daniela.” Si narra che alla premiazione fosse presente pure Evita Peron, che in quei mesi avrebbe seguito il marito Juan Domingo in giro per l’Europa, un anno dopo l’elezione a capo di stato in Argentina. Episodio rimasto sotto traccia, mai documentato con certezza. La vittoria è uno degli ultimi colpi d’ala del grande campione che al termine del conflitto si era ritrovato a insegnare tennis sul Garda agli ufficiali americani. Talmente apprezzato da ricevere pure una allettante proposta per trasferirsi a fare il maestro in un grosso circolo degli States. La moglie però non se la sente di lasciare il Trentino, così declina l’offerta e trova un impiego nella ditta Trezza che gestisce il dazio locale. Con il suo meraviglioso rovescio continuerà a deliziare a lungo il pubblico locale, compreso quello di piazza Venezia, dove giocherà per alcuni anni insieme ad altri nomi di spicco del panorama regionale, come il Conte Sizzo de Noris, Claudio Pegoretti, Ghighi Sassudelli, Sergio Taddei. Rimarrà in campo sino all’ultimo, sulla amata terra rossa di Arco dove tra qualche rimbrotto provvederà a dispensare tanti preziosi consigli ai suoi giovani allievi. A lui continueranno a rivolgersi per anni i tennisti di Trento, Riva e Rovereto, per farsi accordare la racchetta dalle sue mani forti e abili. Nella speranza, vana, che quelle corde restituissero anche a loro un po’ dell’antica magia del campione.

Autore
Luca Avancini

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