Andrea Stoppini: quella che volta che battei Agassi
Sono passati quattordici anni esatti da quella calda serata americana d’inizio agosto. Andrea Stoppini batte André Agassi. Un piccolo grande sogno che diventa realtà. Un sogno inseguito a lungo, uno di quelli che accarezzi “fin da quando cominci a giocare da bambino” e che si concretizza quando nemmeno tu forse ci credi più. E’ un arco luminoso, intenso e breve come una cometa. Vittoria in due soli set, 6-4 6-3 in appena 61 minuti di partita senza storia, con la quale Stoppini fa vacillare sui campi in cemento di Washington un mito che resisteva incurante dei suoi trentasei anni, e si consegna alla storia con un risultato che ha il sapore del miracolo sportivo. Un risultato che lo proietta là dove mai era riuscito ad arrivare, negli ottavi di un grande torneo Atp, il Legg Mason Tennis Classic”, prova da 575mila dollari di montepremi. Stoppini di anni ne ha ventisei, è numero 246 delle classifiche mondiali, ha trascorso il mese di luglio a giocare i tornei Challenger americani ed è riuscito a racimolare i punti necessari per infilarsi nelle qualificazioni al Master 500 di Washington. “Potevo già ritenermi soddisfatto di aver raggiunto il tabellone principale e invece supero al primo turno Goldstein (numero 76 n.d.r.) e al secondo trovo Agassi. Passi tutta la vita a sperare di affrontare questi campioni, di giocare davanti a tanta gente, ma chi mai si immaginava di poter anche vincere. Mi sono detto: cerca di tenere dignitosamente il campo e non perdere 6-0 6-0.”
LA PARTITA - Le sensazioni si rincorrono veloci, l’emozione per un attimo sembra inghiottire ogni volontà. “Prima del match non mi sentivo teso o nervoso - racconta Stoppini - ma quando sono entrato in campo e ho sentito il boato degli spettatori ho avvertito subito un brivido incredibile. Una lunga standing ovation, Agassi costretto a dire “ok ragazzi va bene così”. Era il suo tour d’addio, ed era pur sempre il numero 22 al mondo. Ho avuto tre, quattro minuti di panico, all’inizio del riscaldamento non riuscivo nemmeno a prendere la palla al centro della racchetta. Poi ho cominciato a concentrarmi solo sulla partita, a non pensare all’avversario che avevo di fronte e piano piano mi sono sentito più tranquillo, sicuro.” Talmente sicuro da dominare gli scambi, sostenuto al meglio da una prima di servizio corrosiva e graffiante, con la quale raccoglierà ben l’85% dei punti. “Vinco il primo set 6-3, lui spacca una racchetta dal nervoso, io però non mi lascio impressionare, reggo la tensione: i colpi mi entrano, gli strappo il servizio e conquisto 6-4 anche il secondo. Non penso di aver applicato una vera strategia, ho solo cercato di giocare il mio tennis mentre lui evidentemente era un po’ di giù di corda, svuotato.” Da non crederci… «Sì, proprio da non crederci. Mentre sono vicino alla rete balbetto qualcosa, tipo “è stato un onore”, lui mi stringe la mano, sorride e mi fa “good luck”. Tutto qui. E pensare che avrei voluto portarmi a casa quella racchetta che aveva schiantato a terra e che invece regalò a uno spettatore. Peccato, adesso potrei dire di avere in salotto una racchetta usata da Agassi…» Ride Stoppini, e pensare che invece la sua di racchetta se l’era fatta in casa o quasi. «Mi avevano mandato per errore un pacco di racchette Fisher più lunghe di un centimetro e mezzo… Le ho segate con mio padre in officina e poi l’ho controbilanciate.” La magia dura lo spazio di una notte, Stoppini perderà poi da Mardy Fish, ma la vittoria, quella vittoria, vale una carriera intera. E merita pure una citazione nel best seller “Open”, l’autobiografia di Agassi che diventerà un autentico caso letterario. «Vado a Washington e gioco con un italiano che viene dalle qualificazioni, di nome Andrea Stoppini - scrive André a pagina 475 - Mi batte come se a venire dalle qualificazioni fossi io. Perdo e mi vergogno». Tre righe in tutto, bastano e avanzano. Il rivano è uno dei due tennisti italiani nominati nel libro di Agassi, l’altro è il bolognese Andrea Gaudenzi.
SOGNO AMERICANO - L’America adesso è lontana. Dall’altra parte dell’Oceano avrebbe cantato Lucio Dalla. Ma Andrea Stoppini la porta ancora dentro, è uno scrigno che racchiude le suggestioni, le vibrazioni più forti, gioie e cicatrici. E’ lì che è cominciato e che è finito tutto. “Non dimenticherò mai la prima volta che ho sorvolato gli Stati Uniti in aereo, da solo. E’ stato in quel momento che mi sono sentito veramente libero.” L’America come esaltazione del self-made man, della forza di volontà e dello spirito di sacrificio. Senza i quali non sei nessuno nel tennis, come nella vita. Negli Usa Stoppo ha disputato anche l’ultimo torneo internazionale, prima del ritiro ufficiale a fine 2011. “Avevo accompagnato Grigelis (il lituano che ancora oggi è tesserato per l'Ata Trento, n.d.r.) a giocare un Challenger ad Aptos, in California, dove ero stato finalista qualche anno prima. Persi al primo turno delle qualificazioni con un buon doppista, un certo David Martin. Una brutta partita, ho detto basta. Nella vita prima o poi bisogna dare dei tagli, anche se sono dolorosi. Grigelis vinse il torneo, e io capii che forse era meglio dedicarmi ad altro. Ho cominciato a fare il maestro, ero attirato dall’insegnamento, mi sembrava la cosa più naturale. Non mi sono pentito, mi piace l’idea di riuscire a trasmettere le mie conoscenze, la tecnica di un colpo, un’idea di gioco. Rimpianti? Se guardo alle qualità che avevo, forse qualcuno. Tra i primi 100 al mondo potevo starci tranquillamente. Se invece penso da dove sono partito sono convinto di aver fatto tanto, tantissimo. In Trentino negli anni Novanta non c’erano strutture adatte all’agonismo e il livello non era molto alto. Fino ai 25 anni ho sempre considerato il tennis come un gran divertimento, con poca programmazione. Troppe volte ho fatto di testa mia, ma sono in pace con me stesso.” Quella con André Agassi è la partita che ricordano tutti “Ma ci sono state partite più belle - ribatte lui - con Del Potro a San José nel 2009, era numero 7 al mondo, e avrebbe poi vinto gli Us Open. Persi 7-6 7-6, e 7-5 in entrambi i tie-break.” E poi c’è stata la sfida al serbo Novak Djokovic agli Australian Open, la prima volta in un torneo del Grande Slam, la prima volta su un grande campo centrale come la Rod Laver Arena, davanti ad oltre diecimila spettatori. Avanti 4-0 nel terzo, prima della rimonta del serbo vittorioso 6-2 6-3 7-5. “Alla fine ci siamo scambiati la maglietta, ce l’ho ancora, peccato solo che non sia autografata. Così non vale molto.”
SEMPRE IN CAMPO – La storia tennistica di Andrea è cominciata sui campi del Ct Riva, con il maestro Valerio Mosele, e poi con l’istrione australiano Jack Reader. “Avrò avuto sette o otto anni quando ho preso le mie prime lezioni. Prima solo un po’ di calcio, e qualche colpo contro il muro. A 14 anni ho cominciato fare sul serio, e mi sono spostato da Riva a Milano, da solo. In casa mia si seguiva il calcio. Mio padre aveva un’officina meccanica, mia madre era insegnante elementare, ma hanno sempre cercato di facilitarmi in tutto”. Ora Andrea dirige la Scuola Tennis del Ct Rovereto con il fratello Luca, che è stato pure lui un ottimo giocatore, numero 1236 delle classifiche mondiali. All’ingresso del circolo ci sono le foto che ricordano i momenti più belli della sua carriera, la stretta di mano con Agassi, la Rod Laver Arena gremita. Una targa celebra il suo best ranking, numero 161 al mondo. Di giocare però non ha mai smesso veramente. Qualche torneo Open, qualche partita in serie C, anche per fare da chioccia ai ragazzi del vivaio. “La speranza è che prima o poi gli allievi superino il maestro – sorride - Intanto finché mi sento a posto fisicamente provo a dare il mio contributo. Giocare mi piace ancora, mi manca semmai il tempo per allenarmi. Abbiamo una base valida, un bel gruppo di giovani con buoni margini di miglioramento. Adesso bisogna coltivarla.”
VALORI - I numeri e i risultati stanno dando ragione alla Scuola dei due fratelloni, che può contare su uno staff di primo ordine, con gli Stoppini lavorano il maestro Federico Polvani, pure lui in classifica Atp qualche anno fa, Matteo Zenato, Pierluigi Oradini, papà di Giovanni e Giacomo, e il preparatore atletico Andrea Togni. E il team si avvale pure di uno psicologo dello sport, il dott. Dario Carloni. “Cerchiamo di puntare il più possibile sulla qualità, anziché sulla quantità - prosegue Andrea - “La vera difficoltà è avvicinare i ragazzi all’agonismo. Il bello di questo sport è la competizione, ma alle volte trovi allievi che fanno fatica a giocare una partita. Il confronto è necessario per crescere. A me capitava di non mangiare la sera se quel giorno avevo perso un match. Non so a quanti succeda oggi. La fame e la voglia sono indispensabili, ma difficili da trasmettere, ai più giovani bisogna insegnare soprattutto una cosa: che servono sacrifici, una mentalità diversa per emergere.”